Patrizia Fergnani

Studiosa di cinema e saggista

Cinema... che passione!

Riflessioni a cura di Patrizia Fergnani

Linguaggio, evoluzione e impatto sulla società moderna dell’affascinante mondo chiamato CINEMA.
Contributi a tutto campo di Patrizia Fergnani, laureata in Lingue e Letterature Straniere Moderne con indirizzo cinematografico, scrittrice di articoli e saggi sul cinema.

Il cinema, fonte di emozioni

Di

Patrizia Fergnani

Cinema... che passione!

Non c’è nessuna forma d’arte come il cinema per colpire la coscienza, scuotere le emozioni e raggiungere le stanze segrete dell’anima.” (Ingmar Bergman).

Durante la visione di un film, è naturale essere immersi nella seduzione esercitata dalle immagini, cercare di comprendere le emozioni non le sminuisce affatto, non ne intacca il mistero, casomai si imbatte nella loro complessità.
Un film trasmette un flusso continuo di sollecitazioni di natura visiva e auditiva, che attivano numerose funzioni cognitive, in tale contesto rientrano le emozioni in base a processi specifici di stimoli-reazioni istintive, che sono frutto del coordinamento tra più aree e circuiti cerebrali.
Al cinema, e nella realtà di ogni giorno, l’insorgenza delle emozioni è automatica, il primo impatto è imprescindibile, costituisce la base necessaria per avviare delle riflessioni, infatti è un’esperienza soggettiva e privata, benché condivisibile e nonostante le dinamiche stimolo-reazione non sostanzino poi uno scambio reale, così come può avvenire nella quotidianità.
Tale insorgenza può risultare travolgente per alcuni o modesta per altri, in relazione alla sensibilità personale, alle esperienze maturate in precedenza, ma un film, sempre lo stesso, può avere un impatto diverso su uno spettatore a distanza di tempo, in momenti differenti della sua vita, anche in base alle circostanze della fruizione.
In sala, le eventuali risposte agli stimoli ricevuti sono condizionate dal buio, dalla posizione seduta, dalla vicinanza di più persone, dallo stesso coinvolgimento, tale situazione lascia poche possibilità di “scaricare” le emozioni, ad esempio, con il pianto, la risata, con minimi movimenti corporei sollecitati da certi ritmi musicali.
Nella fruizione domestica, che concede una maggiore libertà, accade qualcosa di simile.
Comunque, ogni spettatore sa di potersi abbandonare e ciò gli permette di vivere pienamente le emozioni percepite o di prendere distanza, benché generalmente egli non si comporti come nelle interazioni reali.
Non è più proprio così se una scena scatena disorientamento, sgomento o turbamento, queste emozioni ad alta intensità possono prendere il sopravvento, “sequestrando” l’attenzione necessaria a seguire una scena successiva, anche se è rilevante o persino risolutiva.
La concentrazione e la simultaneità degli stimoli visivi e sonori, la velocità di proiezione sono fattori che possono potenziare il tasso emotivo e abbassare la soglia dell’attenzione, influenzando la visione, l’ascolto e la comprensione, come può accadere con l’uso del digitale, che si presta a un sovraccarico di sollecitazioni a cascata.
È importante, anche, l’accesso consentito dal racconto: quando questo riduce le informazioni occultando per un certo tempo un evento, un passaggio della storia, il comportamento di un personaggio, la carica emotiva dello spettatore risulta maggiorata. La preclusione o la parzialità delle informazioni lo pone in una condizione di svantaggio, aumentando contemporaneamente la sua curiosità e il suo desiderio di sapere. In parte, ciò succede pure nel caso inverso, ad esempio, quando egli conosce il pericolo che sta per correre un personaggio a sua insaputa. Queste sono alcune delle varie strategie narrative, che un racconto può adottare e cambiare nel suo corso, mettendo a fuoco ora degli aspetti, ora altri.
Infatti, le emozioni sono mediate, convogliate e regolate dagli autori, ed è plausibile distinguere quelle rese dai diversi interpreti o dalla situazione rappresentata, da quelle che prova il pubblico, rispetto alle prime.

Spesso, le emozioni espresse dai personaggi non corrispondono a quelle provate dagli spettatori, ad esempio, la rappresentazione del dolore può ispirare apprensione, compassione o dispiacere, mentre quella di uno scatto di rabbia può suscitare inquietudine, irritazione o indignazione.
Il coinvolgimento manifestabile mediante dialoghi e battute, espressioni del volto e comportamenti, trova ampio spazio in determinati temi, che prevalentemente sono:
-uno scontro tra comunità, tra popoli;
-un contrasto tra due o più personaggi, che perseguono obiettivi opposti;
-un evento traumatico, che provoca delle conseguenze rilevanti, delle reazioni a catena;
-un conflitto interiore, dato da impulsi o da sentimenti contrastanti;
-un bisogno inconscio di un protagonista, che lo spinge a lottare istintivamente, benché egli ne sia poco consapevole;
-una scoperta illuminante.
Il coinvolgimento provato dagli spettatori si può riferire alla storia, allo sviluppo dei suoi temi, alla conclusione, quindi al racconto, ai procedimenti narrativi, tecnici e stilistici, come quelli che sondano e portano a galla il mondo interiore dei personaggi, ad esempio, con delle proiezioni nel passato  o nel futuro, come quelli realizzati con le tecnologie digitali, soprattutto con la steadycam e il drone, che hanno un elevato potere di immersione.

Oggi, solitamente, sono i colpi di scena e la spettacolarità degli effetti speciali che trasmettono emozioni intense, ma possono destarle anche dei dialoghi profondi che riflettano il mondo interiore.
Ingmar Bergman è stato un regista cinematografico e teatrale che ha esplorato a fondo la comples-sità dell’animo umano e dei suoi bisogni inconsci. Nei suoi film, egli ha affrontato temi esistenziali molto coinvolgenti, quali ad esempio: i conflitti irrisolti, le verità nascoste, l’incomprensione, la solitudine, la fragilità, ricorrendo anche a delle simbologie. Bergman puntava su ambienti sobri ed essenziali, su pochi interpreti, la cui recitazione predominava sugli eventi, si soffermava su volti molto ravvicinati, catturava la mimica in divenire. Sua caratteristica era, soprattutto, quella di seguire l’evoluzione dei percorsi interiori dei personaggi, spesso femminili, lasciando loro il tempo necessario per esprimere le emozioni a cicli ricorrenti.
Scene da un matrimonio, con Liv Ullmann ed Erland Josephson, (1973), è la storia di una coppia sposata da dieci anni, apparentemente felice, che in seguito scopre le incrinature del proprio rap-porto, tra dolorose confidenze, separazioni e riconciliazioni. Qui, il percorso psicologico di Marianne, la sua spinta vitale al cambiamento, la ricerca della sua identità, si sviluppano attraverso rivelazioni sofferte e sincere, attraverso un’ampia gamma di sensazioni e sentimenti.
In Sinfonia d’autunno, con Ingrid Bergman e Liv Ullmann, (1978), Eva, che ha perso il suo bimbo e assiste in casa la sorella disabile, invita la madre, affermata pianista, per un soggiorno in famiglia, dopo la perdita del suo compagno. I dialoghi tra le due donne vertono su reciproche accuse, sulle mancanze della madre che ha abbandonato le sue figlie per lavoro; Charlotte chiede perdono, senza ottenere una vera riconciliazione, la cui speranza le giunge, infine, tramite una lettera di Eva.
Girato perlopiù in interni, il film armonizza dialoghi intensi e rigorosi con inquadrature fisse sui volti, sulla reciprocità degli sguardi, che esprimono tutta la loro carica emotiva.
In sintesi, ci sono film che trasmettono emozioni potenti e intermittenti, e film centrati sull’evoluzione delle emozioni, che può richiedere la durata di più scene o di un intero film, come nei due casi appena citati.

Anche la musica è un’immensa fonte di commozione, ad esempio, quando segue il percorso di un personaggio, il viaggio interiore che egli compie, come accade in Forrest Gump di Robert Zemeckis, con Tom Hanks e Robin Wright, (1994).
Il soave volteggiamento di una piuma, accompagnato dal brano The Feather theme, di Alan Silvestri, compare all’inizio e alla fine del film, come simbolo della capacità del protagonista di affrontare e superare le avversità della vita con la purezza che lo contraddistingue.
Seduto su una panchina alla fermata di Savannah, in Georgia, in attesa di un pullman, Forrest racconta la sua storia a degli sconosciuti. Egli ripercorre la sua vita e, per riflesso, la Storia degli Stati Uniti dagli anni Cinquanta agli Ottanta, nel corso dei quali “incontra” Elvis Presley, John Fitzgerald Kennedy, Lyndon B. Johnson, Richard Nixon, John Lennon.
Partecipa alla guerra del Vietnam salvando alcuni commilitoni, il suo tenente e amico, Dan, si distingue nel ping-pong, nonostante abbia avuto delle difficoltà motorie, perde la madre, poi riceve un rifiuto da Jenny, l’unica donna che ama fin dai tempi della scuola: lei, è troppo inquieta, troppo diversa da lui, per accettare la sua proposta di matrimonio, ma gli vuole molto bene.
Forrest corre per tre anni consecutivi attraversando l’America, in direzione dell’Oceano Pacifico e in quella dell’Oceano Atlantico, per elaborare le sue sofferenze, riscattando così anche la malformazione alle gambe patita da bambino, l’etichetta di “diverso” che la scuola gli aveva affibbiato, ma la sua corsa attira l’attenzione dei media e degli americani, molti dei quali si uniscono a correre con lui e per i quali diviene involontariamente una guida.
Infine Jenny, sapendo di essere molto malata, gli rivela di aver avuto un figlio da lui e lo sposa. Dopo la sua scomparsa, Forrest vivrà insieme al suo bimbo.
Un mix di brani strumentali originali di Alan Silvestri, sempre dolci e venati di una punta di malinconia, è alternato a una carrellata di brani di Elvis Presley, di Aretha Franklin, dei Beach Boys, di Jimy Endrix, dei Mamas and Papas, dei Doors, dei Simon & Garfunkel, di Lynyrd Skynyrd, che seguono le tappe del percorso di Forrest e contemporaneamente rispecchiano la Storia della musica americana di quei tempi. Così è per le canzoni, tra cui: Running on empty, Go your own way, Against the wind, che accompagnano la corsa, esaltando le immagini dei grandi paesaggi.

I procedimenti tecnici e stilistici, ricchi di stimoli, come quelli del film seguente, possono suscitare una risonanza interiore molto intensa.
Loving Vincent, dei registi Hugh Welchman e Dorota Kobiela, anche pittrice, (2016), è un film nato dallo studio delle lettere scritte da Van Gogh al fratello Theo e da quello delle sue opere.
Dipinto a olio e a mano da 125 artisti di più parti del mondo, è stato effettuato quasi interamente con la tecnica Rotoscope, ovvero una tecnica di animazione usata per realizzare cartoni animati in modo che i movimenti appaiano realistici e naturali; le scene, già girate con attori veri, sono state ricalcate, fotogramma per fotogramma, quindi montate in un film di animazione.
Il film, ambientato nel 1891, racconta l’ultimo periodo della vita del pittore olandese, trascorso a Parigi, in Provenza e a Auvers-Sur-Oise, quindi il mistero della sua prematura morte, avvenuta a trentasette anni.
Ad Armand, figlio del postino della stazione di Arles, che Vincent aveva ritratto e con cui era entrato in amicizia, è affidata la consegna dell’ultima lettera dell’artista, destinata al fratello. Armand incontra le persone conosciute via via da Vincent, durante il soggiorno francese, riceve così una serie di informazioni, che lo inducono a indagare sulla sua morte e incanalano il film nella trama di un thriller.
Ciò che più emoziona è la rappresentazione delle opere di Van Gogh, di stile prevalentemente postimpressionista: le città, i paesaggi, la serie di girasoli, gli interni delle case, i ritratti e gli autoritratti, dalle dense pennellate, che sfumano da un’immagine all’altra, dai colori in perenne mutamento; è un insolito connubio tra cinema, pittura e tecnologie di animazione, un connubio che lascia il segno.
Il titolo del film prende spunto dal modo con cui Van Gogh firmava le lettere indirizzate al fratello Theo: Con affetto, Vincent.

Parole del cinema

Di

Patrizia Fergnani

Cinema... che passione!

Benché il cinema sia il regno delle immagini, è sempre un territorio in cui la parola ha un ruolo insostituibile, soprattutto in quei film che danno spazio ai dialoghi e, talvolta, ai monologhi. La parola presenta una duplicità: è segno scritto e suono. Nell’ideazione di un film, articolata in soggetto, scaletta, trattamento e sceneggiatura, i testi scritti sono vagliati più volte in base a determinati criteri, quali ad esempio lo sviluppo di una storia, la convertibilità in immagini, l’uso degli aspetti linguistici e tecnici; la revisione della sceneggiatura, che contiene anche i dialoghi dettagliati, può continuare nella fase delle riprese, durante le quali il testo costituisce un punto di riferimento costante.
Attraverso la recitazione, il segno scritto della pagina si fa suono: è la voce che, con i suoi timbri, toni, ritmi e volumi, diviene complice degli atteggiamenti, degli sguardi, dei gesti, sul piano visivo. Le voci vengono elaborate e ottimizzate durante il missaggio finale, assieme agli altri suoni.
La parola dei dialoghi contribuisce all’avanzamento di una storia, fa circolare informazioni, emozioni e sentimenti tra i personaggi, li trasmette al pubblico e, pertanto, condiziona tutta la messa in scena, inoltre, può descrivere o raccontare ciò che le immagini non mostrano svolgendo le veci di determinate azioni. Diversamente, un personaggio di una storia, un narratore esterno possono fornire dei chiarimenti o dei commenti, rivolgendosi soltanto al pubblico.
La parola è efficace anche nello slittamento dei significati, in tal caso li lascia in sospeso, recuperando poi l’interruzione tra una scena e un’altra attraverso dei dialoghi progressivi o cedendo la conclusione a dei testi scritti (carteggi, documenti), oppure alle sole immagini. Analogamente, delle domande, dei dubbi sollevati nel corso di un film possono trovare una risposta nel corso dell’epilogo, anche in un’unica battuta.
Immagini e parole interagiscono bilanciando le rispettive proprietà espressive, il ritmo sostenuto delle prime e la loro immediatezza di rappresentazione richiedono quell’incisività, quell’essenzialità verbali capaci di apportare in poche battute uno o più significati e, talvolta, di suggerire più livelli di lettura.
Una particolare articolazione audiovisiva può affidare compiti diversi ai dialoghi e alle immagini quando, per esempio, in una scena un personaggio femminile e uno maschile, che si conoscono da poco, vengono coinvolti in un interrogatorio della polizia e, mentre i dialoghi avanzano tra domande e risposte, un’alternanza di inquadrature sui volti dei due personaggi e sullo scambio dei loro sguardi rivela i loro sentimenti nascenti. L’interrogatorio e l’inizio di un amore, che siano così raccontati in parallelo e connessi sul piano audiovisivo, mantengono comunque una propria e distinta autonomia espressiva.
Inoltre, la parola filmica è molto eclettica, in base ai generi di film, soprattutto in quelli fondati sulla rigorosità dei testi e sulla recitazione.
Il discorso del re, di Tom Hooper, (2010), con Colin Firth e Geoffrey Rush, basato su eventi realmente accaduti tra metà anni Venti e anni Trenta, è centrato sulla balbuzie severa del principe Albert, duca di York, che poi divenne re Giorgio VI di Inghilterra. Nel film, il suo linguaggio aulico si scontra e incontra con quello più corrente e provocatorio del suo logopedista, attraverso battute serrate e incalzanti, che rendono incisivi i loro dialoghi, nonostante le interruzioni e le esitazioni di Albert. Il suo percorso terapeutico, che evidenzia via via l’importanza della parola, gli permetterà infine di superare le difficoltà di comunicare con il suo popolo attraverso la radio, mezzo di eccellenza a quell’epoca.
Molte commedie brillanti, come quelle di Woody Allen, si avvalgono di frequenti dialoghi ricchi di doppi sensi, di freddure dal registro tragicomico, dolceamaro, o di monologhi.
I film a sfondo psicologico, centrati sul disagio esistenziale o comunque sull’universo interiore, adottano spesso un uso rarefatto della parola, Dove non ho mai abitato, di Paolo Franchi, (2017),   ne fa un uso parsimonioso, richiamando gli sguardi tra i due protagonisti, che scoprono una reciproca, intensa, attrazione.
Nelle trasposizioni cinematografiche di opere teatrali o letterarie, spesso il parlato non trova corrispondenza con il lavoro linguistico compiuto nelle opere preesistenti: sono creazioni e realizzazioni distinte, con linguaggi e procedimenti narrativi propri. Ma la parola di un film può presentare affinità e concordanze con quella di un adattamento dello stesso autore.Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese, (2016), film con Marco Giallini, Giuseppe Battiston, Kasia Smutniak, Edoardo Leo, Alba Rohrwacher, Valerio Mastrandea, Anna Foglietta, è una commedia corale basata sui dialoghi, come lo è la pièce teatrale successiva, sempre di Genovese.
A Roma, durante una cena a casa di Eva e Rocco, sette amici, che si conoscono da tempo, appaiono sereni ed esprimono affetto reciproco, fino a quando Eva propone un gioco, che consiste nel condividere i messaggi, nell’ascoltare in viva voce le telefonate che arriveranno durante la serata. La sua proposta solleva qualche resistenza, poi tutti accettano e posano i cellulari sul tavolo.
Ma le telefonate che arrivano rivelano menzogne e segreti, i fatti pregressi sono sempre raccontati: la loro visibilità è giocata in sottrazione rispetto all’udibilità delle rivelazioni, che scatenano le reazioni a caldo dei personaggi, rimbalzando velocemente dall’uno all’altro, lasciando tutti attoniti e sconvolti. Cosimo, per esempio, nasconde alla moglie due relazioni, una proprio con Eva. Dopo la chiamata del suo gioielliere, egli giustifica malamente l’acquisto di un paio di orecchini a Bianca, che afferma di non averli mai ricevuti e di cui gli chiede conto, ma gli arriva un’altra chiamata e lei afferra il suo cellulare: è Marica, una collega centralinista del radiotaxi che, pensando di parlare con lui, rivela di essere probabilmente incinta. Bianca, a sua volta incinta, si chiude in bagno e vomita, in seguito si toglie la fede ed esce.
Poi arriva l’epilogo che spiazza completamente: i primi ad uscire e a scendere le scale del palazzo sono Bianca e Cosimo, ma… guardano la luna piena e si baciano, gli amici si salutano e scherzano, come se non fosse successo niente. Attraverso le scene conclusive, si capisce che tutto risponde a verità, ma non è emerso durante la serata perché il gioco non si è fatto.
Il film, dunque, è articolato in due livelli di rappresentazione: quello della vita reale dei personaggi e quello del gioco, tuttavia il passaggio dall’uno all’altro non è segnalato da procedimenti di transizione, solo da degli stacchi, che contribuiscono a mantenere l’ambiguità voluta. Ciò che disambigua è il ritorno alla realtà, che è affidato ai dialoghi tra gli amici, a un chiarimento tra Eva e Rocco, tutti necessari per confermare agli spettatori l’inatteso capovolgimento finale. Il dialogo tra moglie e marito nella loro camera da letto dirime la questione: Eva gli chiede perché non ha voluto fare il gioco e lui afferma che non gli piaceva. Lei insiste e lui risponde: Perché siamo frangibili, tutti, chi più, chi meno. Estrae il cellulare dalla tasca dei pantaloni e lo posa sul comodino, dicendo: Hai ragione tu, questa è diventata la nostra scatola nera, dentro ci abbiamo messo tutto, forse troppo, ed è sbagliato giocarci (…)
L’avvertimento di Rocco introduce un concetto preciso: la frangibilità, che non accetta il legame tra il gioco e il cellulare, soprattutto con la scatola nera, intesa come custode di segreti e intimità. Poche parole in un finale amaro che, nel prevenire dolorose conseguenze, resta aperto a più di un significato.

Un’altra forma di valorizzazione, più rara, ma molto interessante, viene dalla parola poetica, che è entrata nel cinema, e nello specifico della recitazione, con modalità differenti.
Per esempio, nel film L’attimo fuggente di Peter Weir, (1989), con Robin Williams, le citazioni dei versi di alcuni poeti, tra cui Orazio, Walt Whitman, Robert Frost, sono tutte a sostegno dell’approccio educativo del professor Keating, che però si scontra con le regole del collegio americano, in cui insegna negli anni Sessanta. Egli incita i suoi studenti a leggere e a declamare le poesie per cercare la propria identità oltre le convenzioni dell’epoca, senza sapere che l’impatto su di loro sarà esplosivo e segnerà un tragico epilogo.
Ne Il postino di Michael Radford, (1994), tratto dal romanzo Il postino di Neruda di Antonio Skármeta, la parola poetica è al centro dei dialoghi ed esprime consonanze con i suoni della natura, presenti nelle inquadrature.  Il film, con Massimo Troisi, Philippe Noiret e Maria Grazia Cucinotta, è ambientato in un’isola del Sud Italia degli anni Cinquanta, che ospita il poeta cileno, Pablo Neruda, in asilo politico. Mario Ruoppolo, figlio di pescatori, consegna regolarmente la posta al poeta ed entra un po’ per volta in confidenza con lui parlando di poesia, da cui è molto attratto. I loro incontri segnano la formazione di Mario dando vita a dialoghi intensi, dal registro poetico, come quelli che seguono.

Mario e Neruda sono seduti sulla spiaggia e il poeta recita: Qui, nell’isola, il mare e quanto mare, esce da sé a ogni istante. Dice che sì, dice che no, poi che no. Che sì in azzurro, in schiuma, in galoppo. Dice che no, che no. Non può stare tranquillo. Mi chiamo mare, ripete (…. ) Allora,
che cosa te ne pare?
Mario: Strano, come mi sentivo mentre le dicevate, (…) non so, le parole andavano di qua e di là.
Pablo: Come il mare, allora!
Mario: Esatto, come il mare.
Pablo: E questo è il ritmo.(…)
Mario: Infatti, mi è venuto il mal di mare (…) non so spiegare, mi sono sentito come una barca  sbattuta in mezzo a tutte queste parole (…)
Pablo: Tu lo sai che cos’hai fatto, Mario?
Mario: Che ho fatto?(…)
Pablo: Una metafora.

Così, quando Mario gli chiede come si fa a diventare poeti, Neruda gli risponde: Prova a camminare lentamente lungo la riva sino alla baia, guardando intorno a te.
Mario: E mi vengono le metafore?
Pablo: Sicuramente.  

La similitudine tra “l’ondeggiamento” delle parole e quello del mare, della barca, esprime il coinvolgimento di Mario. In seguito, egli registra i suoni della natura, senza sapere che quelle registrazioni saranno gli ultimi, teneri, ricordi che lascia alla moglie Beatrice, al loro bimbo e a Pablo Neruda.

Diversamente, alcuni film sono centrati sulla vita di poeti realmente vissuti. Per esempio, Bright star di Jane Campion, (2009), con Ben Whishaw e Abbie Cornish, ambientato nelle campagne londinesi tra il 1818 e il 1821, narra gli ultimi anni di John Keats, appartenente alla seconda generazione di poeti del Romanticismo inglese.
È la storia di un amore puro e molto intenso tra Keats e Fanny Brawne, una giovane dedita al cucito e al ricamo, un amore contrastato per le loro diverse condizioni economiche, ma soprattutto stroncato dalla tubercolosi, che spegne il poeta a Roma all’età di venticinque anni. La poesia romantica è sempre presente: nei primi scambi di idee tra i due giovani, nelle lezioni che John impartisce a Fanny, nelle lettere d’amore che si scrivono quando sono lontani; sono presenti i temi dei suoi versi, scritti con uno stile assai moderno, in particolare la contemplazione della bellezza nella natura e nell’arte, come fonte di gioia e di verità, che trascende la fuggevolezza della vita. I riferimenti alla scrittura copiosa di John, ispirata dalla sua musa, emergono anche attraverso le declamazioni di uno o di entrambi i protagonisti, come nella scena finale in cui lei, ormai rimasta sola, recita camminando ed esprimendo il suo incontenibile dolore.
Il titolo del film richiama quello di una poesia di Keats, scritta per Fanny: Fulgida stella.

C’è musica nel cinema

Di

Patrizia Fergnani

Cinema... che passione!

La musica è sempre molto coinvolgente e, con le sue melodie, le sue armonie, i suoi ritmi, ha un ruolo essenziale all’interno dei film presentando una varietà di aspetti, che offre più elementi di riflessione.

Alla distinzione tra suoni in/off/over, esaminati nel Contributo: Le dinamiche di immagini e suoni, segue ora quella tra musiche originali e di repertorio. Per le prime, si intendono canzoni o brani composti appositamente per un film, quindi inediti,  mentre per le seconde, si intendono canzoni o brani già composti, reperibili nel panorama musicale esistente e già editi: un film può contenere sia le une, sia le altre, ma anche una composizione non originale, che sia rimasta inedita per un motivo particolare. Nel primo caso, un autore può scrivere la partitura musicale dopo aver visionato le riprese, oppure nel corso delle medesime o prima del loro inizio, sulla base della sceneggiatura, come fece Ennio Morricone per dei film di Sergio Leone. Comunque, una composizione originale richiede una stretta collaborazione tra i due autori, tra loro e il montatore; del resto, le colonne musicali sono nate spesso da grandi sodalizi tra registi e compositori. Nel secondo caso, una musica adottata può essere eseguita secondo la partitura originale e con gli stessi strumenti del brano da cui è tratta, o con altri, ma può anche essere modificata con degli arrangiamenti.

Molti studi hanno attribuito alla musica per film varie funzioni di rilievo, come quella leitmotivica. Il leitmotiv è un tema che ha un preciso riferimento a un fatto, un luogo, un personaggio, un sentimento, che si ripropone più volte conservando la sua riconoscibilità, anche se presenta delle variazioni melodiche, armoniche o di ritmo, anche con strumenti diversi. Dunque è ricorrente e identificabile, lo si usa a fini narrativi, per conferire coesione in un’opera, nonché per consentire al pubblico di ricordare più facilmente il suo legame con situazioni, fatti o personaggi che ha già visto in precedenza, di seguirne l’evoluzione. L’idea risale soprattutto all’Ottocento e a Richard Wagner, che la applicò nelle sue opere, ma in seguito fu ampiamente sfruttata e sviluppata con sfaccettature complesse da numerosi compositori nell’ambito cinematografico, in cui il leitmotiv è riconoscibile a distanza di scene, persino se è intervallato da delle canzoni o da dei brani musicali. L’uso del leitmotiv è particolarmente evidente in tutti o quasi tutti i film di una serie cinematografica, come quella di Star Wars o quella di Mission Impossible, talvolta è musicata da un compositore, talvolta da più compositori, ciascuno dei quali imprime la sua impronta personale in base alle singole storie, con esecuzioni e arrangiamenti differenti.
Ma la musica di un film può essere priva di un tema conduttore, può essere costituita da brani, da canzoni, originali o di repertorio, che accompagnano degli eventi o dei momenti salienti.
Essa svolge altre funzioni: accompagna i titoli di testa e di coda, dà continuità a delle scene, ne precisa il contesto, segue e scandisce l’evoluzione degli eventi, li può commentare, anticipare, può caratterizzare i personaggi sottolineandone gli stati d’animo, può suggerire interpretazioni divergenti rispetto a quelle suggerite dalle immagini.
Solitamente, a un brano vengono affidati compiti diversi di scena in scena nell’arco di un film o in film diversi, ciò che fa la differenza è un particolare abbinamento tra immagini e musica.

Consideriamo alcune funzioni più da vicino.
-Contestualizzazione e ambientazione storica. Il gattopardo di Luchino Visconti, (1963), con Claudia Cardinale, Burt Lancaster e Alain Delon, tratto dall’omonimo romanzo di Giuseppe Tomasi Lampedusa, è ambientato nel periodo dell’imminente caduta del regno borbonico delle due Sicilie e della nascente unificazione d’Italia. Nella famiglia nobile dei Corbera di Salina, il principe Fabrizio assiste al cambio epocale e al declino dell’aristocrazia, mentre l’ambizioso nipote Tancredi si arruola nelle file garibaldine. La lunghissima sequenza del ballo, divenuta celebre, ricorre all’inedito Valzer brillante di Giuseppe Verdi, poi orchestrato da Nino Rota.
Ma la musica classica, con la complessità e la vastità delle sue composizioni, ha sempre offerto e offre enormi possibilità di adozione per i film storici o comunque per temi che evocano il passato, per temi sacri, spirituali, drammatici o romantici.
-Connotazione di tradizioni e culture. I generi musicali cosiddetti moderni, quali: il blues, il jazz, lo swing, il country, il rock, il folk, il pop, la musica elettronica con i sintetizzatori, sono utilizzati per creare atmosfere particolari o per connotare ambientazioni geografiche, storiche, di Paesi diversi con le rispettive culture, tradizioni e gli strumenti che le caratterizzano. Sono molteplici gli esempi di composizioni e di interpretazioni giunte sugli schermi: quelle di Glenn Miller, George Gershwin, Duke Ellington, Louis Armstrong per il blues, il jazz e lo swing; quelle di Neil Joung e Keith Carradine per il country; quelle di Elton John, dei Beach Boys, dei Beatles, dei Pink Floid per il rock; quelle di Joan Baez, Bob Dylan per il folk; quelle dei Bee Gees, dei Rolling Stones, dei Platters, di David Bowie per il pop; quelle di Giorgio Moroder per la musica elettronica.
Anche le canzoni di cantautori italiani sono approdate al cinema, come ad esempio quelle  di Fabrizio De André, Lucio Dalla, Paolo Conte, Antonello Venditti, per la poeticità dei loro testi, per l’immediatezza delle immagini che suscitano e per le interpretazioni innovative dei generi musicali.
-Coordinamento ritmico con la gestualità degli attori. In Dove vai sono guai, di Frank Tashlin, (1963), il giovane Norman Phiffier, interpretato da Jerry Lewis, dimostra di essere un uomo di valore, contrariamente a quanto pensa la madre della sua fidanzata, che lo considera un fannullone opportunista e lo assume nei grandi magazzini di sua proprietà, con l’intento di screditarlo e di allontanarlo dalla figlia. In una scena surreale, Norman, ripreso in campo medio e primo piano, mima il lavoro del dattilografo, ma la macchina da scrivere e il foglio non si vedono: qui egli riscatta le sue abilità attraverso l’immaginazione. Ogni minimo gesto è cadenzato sul ritmo del brano, The typewriter di Leroy Anderson, che a sua volta accentua il battito dei tasti, lo squillo del campanello di fine riga, il suono emesso dalla leva dell’a capo. Nella conclusione imprevista, Norman mima l’estrazione del foglio, che in quell’istante compare sullo schermo, interamente bianco.  Il brano, scritto per orchestra e macchina da scrivere, è preesistente al film, fu eseguito per la prima volta nel 1953 e riproposto successivamente in più concerti.
-Sincronizzazione ritmica con il montaggio delle inquadrature. Il Diavolo veste Prada di David Frankel, (2006), con Meryl Streep, Anne Hathaway, Emily Blunt e Stanley Tucci, racconta la storia di Andrea Sachs, aspirante giornalista, che si ritrova a svolgere il ruolo di assistente a Miranda Priestly, spietata donna in carriera e autoritaria direttrice di una famosa rivista di moda, la Runway di New York. Nella sequenza dell’arrivo anticipato di Miranda alla Runway, il montaggio alterna le inquadrature di lei, che scende da un’auto e prende l’ascensore, a quelle dei suoi collaboratori, che si affannano a sistemare gli uffici, come lei si aspetta. Il brano originale di Theodore Shapiro, Suite from the devil wears Prada, è eseguito per chitarre elettriche e percussioni ed è perfettamente sincronizzato con il ritmo incalzante della successione di angolazioni, campi e piani diversi.
-Concorso all’evoluzione dei protagonisti. La migliore offerta di Giuseppe Tornatore, (2013), con Geoffrey Rush, Donald Sutherland, Silvia Hoeks e Jim Sturgess, è ambientato in un’indefinita città europea. Virgil Oldman è uno scorbutico antiquario sessantenne, stimato battitore di aste, affiancato dall’amico e collaboratore Billy, e nel privato conduce una vita solitaria, senza amore: egli stesso ammette di non capire le donne. In un caveau della sua casa, custodisce gelosamente dei ritratti femminili di valore. La vita di Virgil cambia dal momento in cui riceve delle telefonate dalla giovane Claire, che gli chiede di valutare il patrimonio della sua antica villa, dopo la recente scomparsa dei genitori. Ma lei non si presenta agli appuntamenti, poi accetta di comunicare attraverso una porta chiusa poiché è afflitta da anni da una malattia che le impedisce di avvicinare le persone e di uscire in luoghi aperti: l’agorafobia. E Virgil se ne innamora perdutamente, nonostante le sue sparizioni. Nel frattempo, fa ricomporre gli ingranaggi di un antico automa meccanico, ritrovati nella villa, a Robert, un giovane restauratore di marchingegni, a cui confida queste vicende e con cui entra in amicizia. Ma da profittatore, Virgil diventa vittima di un complotto ben congegnato nei minimi dettagli, sono proprio loro tre, l’unica donna che ama e gli unici due amici che ha, a ingannarlo, a tradirlo fin dall’inizio, poi a derubarlo della sua collezione di ritratti femminili, lasciandogli solo l’automa ricostruito che ripete: In ogni falso si nasconde sempre qualcosa di autentico. Virgil subisce un crollo psicofisico e finisce in ospedale. La vera Claire è una donna nana, seduta su una poltroncina accanto a due stampelle che, da un bar situato di fronte alla villa, la tiene sempre d’occhio, è lei la vera proprietaria che, capace di calcoli straordinari, gli rivela i pezzi mancanti della storia.
La musica, lirica e molto ricercata di Ennio Morricone, è composta dall’orchestra, in particolare dagli archi che seguono tutti gli eventi, con fluttuazioni inquiete o sommesse di violino, viola e cello, con accordi ora lunghi, ora distaccati, con i suoni inconsueti della glassarmonica, (caratterizzata da delle calottine di vetro, infilate intorno a un perno girevole). Inoltre, una sovrapposizione di voci femminili, parallela agli archi, sottolinea l’evoluzione delle emozioni e dei sentimenti di Virgil portando avanti il racconto, sono vocalizzi molto intimi, che compaiono in presenza di Claire e nell’ultima parte la richiamano in sua assenza, che assumono un ruolo anticipatore o uno evocativo. I vocalizzi echeggiano per la prima volta nel caveau, accompagnando le soggettive di Virgil e le panoramiche sui quadri, identificando subito un suo rapporto particolare con le donne. Poi risuonano quando Virgil acquista degli abiti per Claire e proseguono quando la osserva mentre li indossa, per Virgil, è una svolta felice: crede che lei stia guarendo per amore. In seguito, accompagnano l’improvvisa, temporanea, sparizione e la ricerca di Claire, quindi un’asta, che Virgil conduce goffamente pensando sempre a lei: qui esprimono il suo terrore di perderla e anticipano la vera e definitiva fuga della giovane. Un’ultima volta le voci  divengono evocative assecondando un montaggio serrato, che attraversa spazi e tempi: i ricordi d’amore di Virgil, permeati dal suo sconforto e smarrimento, il suo viaggio in treno, la rinuncia a sporgere denuncia,  l’arrivo a Praga, la ricerca di Claire e di qualcosa di autentico nell’unica piazza e nell’unico locale, il Night and Day, in cui lei era stata felice a quattordici anni, qui sottintendono un desiderio di ritrovarla che supera la sua consapevolezza dell’inganno. Infine, all’interno del locale, le voci cedono posto agli archi, a una melodia struggente, che poi prende congedo dal protagonista dissolvendosi in chiusura.

Tra i brani del film, figurano: La migliore offerta, Volti e fantasmi, Nevrosi fobica, Sguardi furtivi, Cercarla e non trovarla, Alla villa, Perduta, Le vuote stanze, Pareti bianche.

Le dinamiche di immagini e suoni

Di

Patrizia Fergnani

Cinema... che passione!

Tempi moderni (1936) di e con Charlie Chaplin, ambientato negli Stati Uniti, nel periodo della ripresa economica degli anni Trenta, dopo la grande crisi, dell’incremento dei nuovi sistemi produttivi, comincia così.
Una prima inquadratura dall’alto mostra un gregge di pecore in movimento, segue una dissolvenza, quindi una seconda inquadratura, sempre dall’alto, mostra degli uomini che escono da una metropolitana.
Il coordinamento delle due inquadrature è dato dall’analogia delle situazioni e dai codici visivi: una moltitudine di soggetti avanza compatta verso una direzione, le inquadrature presentano un’angolazione di macchina dall’alto, una durata molto simile e delle sfumature di bianco e nero, assumendo così una valenza metaforica.  Le immagini seguenti mostrano quegli uomini che camminano in fila ed entrano in una fabbrica: sono degli operai; negli episodi successivi, tra loro, uno non si adatta alla ripetitività e alla frenesia dei ritmi imposti dalla catena di montaggio: è il personaggio di Charlot, rappresentato dalla pecora nera apparsa precedentemente nel gregge. Dunque, il regista ha sfruttato l’immediatezza e l’eloquenza dei codici.

Il linguaggio cinematografico, infatti, è composto da codici, ovvero da un complesso sistema di segni e suoni che interagiscono tra loro, apportando uno o più significati.
Quelli tecnologici, adibiti alla composizione di messaggi e informazioni, alla loro trasmissione e conservazione, sono i supporti: la pellicola, la memoria del computer, lo schermo. Quelli grafici comprendono le tracce scritte che appaiono in un film, come i titoli di testa e di coda, i sottotitoli, le scritte riprodotte o fotografate, come la pagina di un giornale, l’insegna di un ristorante.
Ma i codici di cui ci occupiamo qui e maggiormente sottoposti all’elaborazione espressiva e creativa, sono:
-i codici visivi, che riguardano la composizione fotografica, la scala dei campi (per gli ambienti) e quella dei piani (per la figura umana), l’illuminazione, i colori, quindi i movimenti di macchina apparenti, come quelli dati da zoom e grandangolo;
-i codici sonori, che riguardano le voci, le musiche, i rumori;
-i codici sintattici, che riguardano il montaggio nelle sue varie forme e i movimenti reali di macchina, come le carrellate e le panoramiche.
Immagini e suoni, quindi le loro combinazioni, vanno sempre considerati rispetto a spazio e a tempo, in virtù della ripresa e del montaggio.
Non fu un caso che, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, gli studi condotti in semiologia, la scienza dei segni, e quelli condotti sulla scrittura di un testo, sull’analisi narrativa, strutturale e linguistica, si estesero al cinema apportando chiarimenti e approfondimenti di rilievo su codici, storia e racconto.
La storia si struttura nell’arco di un determinato periodo, esige un inizio, una successione di eventi destinati a cambiare attraverso le azioni compiute da dei personaggi e gli avvenimenti che si verificano in determinati ambienti esterni/interni, quindi giungono a una conclusione.
La storia segue un ordine nel tempo che non ammette inversioni.
Invece, il racconto, che comprende la storia, si struttura attraverso il modo di raccontarla, mediante delle operazioni e delle procedure compositive, che articolano liberamente gli eventi nello spazio-tempo, per cause ed effetti, con delle possibili inversioni.
Una stessa storia, infatti, può evolvere in racconti differenti.
I codici appartengono alla storia e alla sua narrazione in un racconto ed è qui che, solitamente, manifestano una vasta gamma di combinazioni.

Sul piano visivo, gli spazi rappresentati nelle inquadrature derivano dalle porzioni di spazio inquadrato e dalle distanze da cui si riprende, che sono riferibili alla scala dei campi (dal campo lunghissimo fino a quello totale), alla scala dei piani (dalla figura intera fino al dettaglio), derivano inoltre dalle angolazioni della macchina da presa (dall’alto, dal basso, di fronte, di lato…), dalle sue inclinazioni (normale o obliqua). Tutto ciò che è escluso dall’inquadratura è definito fuori campo, a cui però rinvia o allude la rappresentazione in campo.
Rispetto al tempo, la successione, la diversa durata e alternanza delle inquadrature, sia quelle statiche, riprese da una macchina ferma, sia quelle dinamiche, riprese da una macchina in movimento, conferiscono ritmo alla proiezione, e riguardano principalmente il montaggio.
Solitamente, una successione di campi, piani e angolazioni apporta dei significati o li modifica via via.
Uno dei maestri particolarmente attenti alla scelta delle inquadrature, all’utilizzo di un loro numero elevato in una sola scena, alla frequenza della loro alternanza, è stato Alfred Hitchcock.
Nel film La finestra sul cortile (1954), con James Stewart e Grace Kelly, Jeff è un fotoreporter di New York, costretto su una sedia a rotelle in seguito a una frattura ad una gamba, dal suo appartamento egli osserva ripetutamente le finestre dei condomini di fronte, sia a occhio nudo, sia con un binocolo e un teleobiettivo fotografico. Attraverso le varie finestre, che rivelano gli interni e le singole storie, Jeff segue le vite altrui fino a sospettare un omicidio.
Alla sua immobilità si oppone una dinamica successione delle inquadrature sulle finestre e di ciò che avviene all’interno, mentre delle panoramiche scorrono dall’una all’altra fino alla scoperta dell’assassino, che a Jeff costerà una seconda ingessatura. Tali inquadrature, inoltre, sono soggettive del protagonista che consentono, cioè, allo spettatore di vedere attraverso il suo sguardo.
In Intrigo Internazionale (1959), con Cary Grant ed Eva Marie Saint, Roger Thornill è un pubblicitario di New York, che viene erroneamente scambiato per un agente segreto e rapito da un’organizzazione spionistica. Viene inviato a un finto appuntamento in una distesa desolata, in cui egli crede di trovare una spiegazione. Qui, nella scena dell’aereo, appare subito il contrasto tra la vastità dello spazio e la figura solitaria di Roger, che sottolinea la sua attesa e i suoi timori. A un certo punto un aereo, che si vedeva cospargere diserbanti in lontananza, si dirige verso di lui e lo attacca sparandogli addosso insistentemente, mentre egli scappa cercando un riparo o cadendo a terra disteso. In questa lunga scena, il regista ha utilizzato una vastissima gamma di inquadrature, diversificandone il ritmo, alternando campi lunghi e lunghissimi, a campi medi, a primi piani del protagonista, a sue soggettive, ad angolazioni dall’alto e dal basso, per rimarcare la sua attesa prima e il suo terrore dopo, per creare una suspense crescente. Le presenze sonore sono date dall’aereo, dalle automobili, da una manciata di battute e dalla musica che compare solo a fine scena, in cui l’aereo si schianta.

Sul piano acustico, i suoni, comprese le voci, svolgono più funzioni: forniscono informazioni, caratterizzano gli ambienti, contribuiscono a creare atmosfera, unificano le inquadrature per una certa durata, esprimono gli stati d’animo dei personaggi, evocano significati.
Nel montaggio audiovisivo, si valutano i rapporti tra immagini e suoni rispetto alla storia o alla narrazione del racconto, nel primo caso si distinguono le sorgenti sonore collocate nel campo delle inquadrature da quelle collocate nel fuori campo.
Infatti, il suono si definisce in quando la sua fonte è presente all’interno delle inquadrature, si definisce off quando la sua fonte non è presente, è al loro esterno.
Immaginiamo una coppia che stia ballando in una sala sulle note di un pianoforte: l’inclusione di pianista e pianoforte nelle inquadrature decreta il suono in, che è visualizzato in campo, è avvertito sia dai personaggi, sia dagli spettatori e fa parte della storia. Se la coppia danza su una terrazza, mentre pianista e pianoforte non si vedono, la loro esclusione visiva decreta il suono off, che è fuori campo, ma è udibile sia dagli uni, sia dagli altri e fa sempre parte della storia.
Il suono over, invece, è percepito soltanto dagli spettatori, non appartiene alla storia, bensì alla narrazione del racconto in base ai procedimenti compositivi, può essere, ad esempio, una musica che accompagna delle immagini e le unifica, può essere una voce narrante, che non è di alcun personaggio e, tuttavia, fornisce informazioni e spiegazioni nel corso di una scena o di più scene.
Ma i suoni possono passare da una condizione ad un’altra, ad esempio, una musica in può lasciare posto alla sua versione over, e viceversa.
Immaginiamo una sequenza, che presenta dei salti nello spazio-tempo, composta come segue.
In un night club, un personaggio sta ascoltando un brano eseguito al violino da un musicista: strumento e violinista sono in campo, appartengono al presente del personaggio e alla storia.
Al personaggio, ripreso in primo piano, seguono uno stacco, quindi delle immagini che in sintesi lo mostrano proiettato in un evento del suo passato, mentre la musica in diventa over apportando una ricca orchestrazione di altri strumenti e un cambio del ritmo: musica over e ricordo appartengono alla narrazione del racconto.
Dopo un altro stacco, ricompare il primo piano del personaggio, che sta ascoltando il brano al violino, sempre visualizzato nel night: tale primo piano introduce il ritorno al suo presente e anche alla storia.
Si ricorre spesso a tali transizioni per mettere in evidenza un passaggio narrativo, gli stati d’animo dei personaggi o per precedere qualcosa che vi è collegato.
Questi sono i criteri base di classificazione, che tuttavia hanno delle varianti e delle eccezioni.
Riconoscerli durante la visione di un film aiuta a capire le operazioni effettuate per realizzare una scena o una sequenza.
Infatti, suono e immagine presentano prerogative e vincoli espressivi propri, che permettono numerose loro combinazioni, in virtù della ripresa, del montaggio e del missaggio dei suoni.
Christian Metz, semiologo e teorico francese che introdusse un metodo per analizzare i film e per agevolarne la comprensione, scriveva che i codici cinematografici non si limitano alla convivenza, né alla loro somma in un film, ma si prestano a varie combinazioni dinamiche: sono soggetti a essere spostati, sostituiti, contrastati, contaminati.
Ed è proprio la varietà delle combinazioni che li rende imprevedibili.
Se ne ha un esempio, quando in una successione di inquadrature o in una scena la parola diventa canto, che a sua volta ripristina la parola in base all’avanzamento della sceneggiatura e di un brano musicale o della concordanza di più voci; è ciò che accade nel film seguente.
On connait la chanson, (Parole, parole, parole) del 1997, di Alain Resnais, con Sabine Azéma, André Dussollier, Pierre Arditi, Jean Pierre Bacri, Jane Birkin, Agnès Jaoui, è una commedia corale ambientata a Parigi, in cui si intrecciano sei storie, tra innamoramenti, delusioni e inganni.
Il regista sostituisce più volte i dialoghi dei personaggi con delle citazioni, degli intermezzi musicali in play-back, prestando loro le voci degli interpreti della canzone francese. Sul piano audiovisivo si segue un interprete che recita, canta e torna a recitare, ma quando il canto sostituisce la recitazione, non è più la sua voce, ora è quella di Charles Aznavour o di Gilbert Bécaud, ora è quella di Leo Ferrè o di Edith Piaf, di Johnny Hallyday… Inoltre, ai brani cantati è affidato il compito di svelare i pensieri più reconditi, inquietudini, paure e desideri, perciò i testi passano dalle canzoni alla recitazione con un effetto generativo tra codici, che si ripresenta più volte nel corso del film.
Questa formula desta sorpresa e ironia insieme, soprattutto quando il montaggio combina il canto per voce femminile con l’immagine di un attore, anziché di un’attrice, oppure quando combina una canzone per voce femminile con le inquadrature di più attori e attrici, separate da stacchi.
Sono combinazioni libere che, tuttavia, seguono i criteri dell’opposizione e della sostituzione dei codici, sottolineando la coralità del canto come sentimento concorde di più persone, da considerare nell’arco della sua progressione.

Cenni di Storia del cinema, tra tecnica e linguaggio

Di

Patrizia Fergnani

Cinema... che passione!

Il cinema deve la sua nascita a una molteplicità di scoperte scientifiche, di innovazioni tecniche e artistiche, compiute da diversi ricercatori e inventori soprattutto nel corso dell’Ottocento. Esso ha attinto molti caratteri da altre arti (in particolare, dalla fotografia, dal teatro, dalla pittura, dalla musica, dalla letteratura), integrandoli e trasformandoli in forme espressive e in funzioni informative proprie attraverso un percorso impegnativo, che attraversò diverse fasi prima di assumere un linguaggio autonomo.

Si considera un primo passo fondamentale la ricerca di trasformazione della fotografia da statica a dinamica, che si ottenne scomponendo un’azione e riproducendo il movimento in scatti successivi con gli strumenti ottici dell’Ottocento. Fu il laborioso passaggio dalla lastra fotografica alla pellicola che consentì di impressionare immagini in sequenza, di proiettarle in rapida progressione fino a riprodurre l’impressione del movimento.
Tra i ricercati dispositivi di immagini in movimento, il primo ad essere messo a punto e presentato fu quello dei fratelli Louis e Auguste Lumière, figli di un fotografo. Nel 1895 proiettarono per la prima volta a Parigi la pellicola stampata con un apparecchio che avevano brevettato, il cinematografo, la loro idea attirò molto pubblico e divenne uno spettacolo. L’arrivo del treno e L’innaffiatore innaffiato divennero i brevissimi filmati più famosi tra quelli presentati.
In seguito, si proiettarono vedute di ambienti, di città e Paesi, erano singole immagini a effetto immediato, scene comiche, documentari che rappresentavano la realtà, anche in pochi minuti.
A partire dal 1896, l’illusionista e regista Georges Méliès, ispirandosi ai trucchi teatrali che ben conosceva, introdusse via via tecniche fantasiose ed effetti speciali, nonché effetti di montaggio dagli esiti comici o surreali. La sparizione di un personaggio e la sua riapparizione, ottenute con l’arresto e l’avviamento successivo della ripresa, quindi sovrimpressioni, dissolvenze, accelerazioni o rallentamenti dei movimenti dei personaggi, il colore dipinto a mano sulla pellicola con una lente di ingrandimento, furono le sue esecuzioni di grande precisione.
Ma l’aggregazione delle immagini dinamiche mancava di uno sviluppo narrativo nello spazio e nel tempo, che divenne oggetto di studio negli anni a seguire, allontanando via via il cinema dal solo intrattenimento e dalla rappresentazione della realtà.

Infatti, si realizzò un secondo passo importante sperimentando le pratiche della ripresa e del montaggio per raccontare una progressione di fatti, anche disarticolando i nuclei narrativi e ricomponendoli, spostandosi inoltre dalla concretezza degli eventi alla dimensione dei sentimenti.
A partire dal 1908, David Work Griffith contribuì notevolmente all’evoluzione del racconto, interrompendo la linearità con relazioni spazio-temporali inconsuete, sperimentò a lungo ripresa e montaggio, dimostrò molteplici utilizzi della macchina da presa a fini narrativi: ad esempio, frazionando una scena e riprendendo da angolazioni diverse, anche con più macchine, poteva assegnare una diversa funzione espressiva a ogni inquadratura, conferendo poi coerenza e ritmo attraverso il montaggio. In particolare, con i montaggi parallelo e alternato realizzò film molto complessi, intrecciando nel primo più storie ambientate in luoghi e tempi diversi, evidenziandone relazioni, contrapposizioni e messaggi, sviluppando nel secondo la simultaneità di due o più eventi, due o più situazioni consequenziali, fino alla loro convergenza, di solito, in un esito finale.
Codificò la terminologia (ad esempio, inquadratura, scena, sequenza), sistematizzando regole e tecniche già conosciute, inventò il close-up, che divenne il primo piano.
Ma il cinema, per acquisire autonomia, aveva bisogno anche di affrancarsi dalle tradizioni teatrali dell’epoca, dalla rappresentazione scenica che comportava lo svolgimento delle azioni al centro dell’immagine, dalle funzioni decorative della scenografia, dall’uso pressoché uniforme dell’illuminazione.

Griffith iniziò a prendere le distanze dalle tecniche teatrali, cominciò sfruttando la sparizione e la riapparizione graduale dell’immagine, consentite dalla macchina da presa, le dissolvenze, per segnalare la fine di una scena e l’inizio di quella seguente o comunque i passaggi temporali centrali, sostituendo così l’uso del sipario.

L’avvento del sonoro prima e quello del colore poi segnarono i passaggi successivi. In molte sale i film erano accompagnati da effetti sonori prodotti durante la proiezione, oppure da un pianista, da un’orchestra dal vivo. Cabiria, di Giovanni Pastrone (1914) e Intolerance di David Work Griffith (1916) ne sono famosi esempi.
Si avvertiva la necessità di musiche e dialoghi, si erano già sperimentate la registrazione e la riproduzione del suono, che però ponevano dei problemi di sincronizzazione con le immagini, in particolare quella delle voci con i movimenti delle labbra, che esigeva precisione, si temeva anche che la conversione tecnologica imponesse costi molto elevati.
Il cinema muto ricorse prima alla presenza in sala di un commentatore, poi all’uso di didascalie scritte su dei cartelli posti al centro dello schermo o sovrimpresse alle inquadrature, che fornivano informazioni. Descrivevano degli eventi, anticipavano delle immagini con una spiegazione, anche con funzione di collocazione spazio-temporale, riportavano i dialoghi degli attori oppure sintetici concetti astratti, inoltre contenevano elementi grafici o decorativi molto curati.
Dopo aver proposto un primo film con commento sonoro nel 1926, la Warner Bross produsse nel 1927 Il cantante di Jazz di Alan Crosland, che conteneva inserti cantati e parlati, anche se erano ancora presenti le didascalie.
L’interruzione del flusso delle immagini imposto dalle didascalie, l’ingombro e la pesantezza delle attrezzature che complicavano il lavoro degli operatori e degli attori sul set, la registrazione in presa diretta, il successo dei primi film sonori, spinsero alcune case di produzione a valutare apparecchi più leggeri e nuove tecniche di registrazione, separate da quelle di ripresa, di sincronizzazione tra immagini e suoni, nonché i costi.
All’epoca, alcuni registi erano contrari al sonoro perché esigeva notevoli cambiamenti, altri invece, più favorevoli, studiarono i nuovi equilibri tra elementi visivi e sonori richiesti dall’adozione delle nuove tecnologie.
In breve, alla fine degli anni Venti la colonna sonora era costituita da tre categorie: musiche, rumori, parole, (e non solo dalle prime), che favorirono la ricerca di molteplici combinazioni audiovisive.
Sempre in quel periodo, nel 1928, alcuni registi sovietici firmarono il Manifesto dell’asincronismo, in cui sostenevano la centralità del montaggio, nonché la contrapposizione tra suono e immagine. Tra loro, Sergej Ejzenstejn, filmava azioni molto serrate, anche incomplete, di valenza simbolica, invertiva l’ordine delle scene, ricorreva al conflitto tra inquadrature e al contrappunto tra immagini e suoni, inducendo lo spettatore al completamento di senso o all’immaginazione.
Egli si occupò della forma espressiva, dei metodi di montaggio e lasciò una vasta saggistica sull’estetica cinematografica.

Sul piano della registrazione e soprattutto della riproduzione dei suoni l’utilizzo e l’evoluzione della tecnica stereofonica, la cui invenzione risale agli anni Trenta, associata a quella del Cinemascope negli anni Cinquanta, favorirono un salto di qualità. In seguito, le varie generazioni di Dolby, dagli anni Settanta in poi, consentirono una definizione di dialoghi, musiche e rumori sempre migliore, senza ronzii e fruscii indesiderati, il suono acquisì una nitidezza e una purezza superiori elevandosi di qualità e di volume fino al Sensorround, che ha portato vibrazioni a forte intensità. Oggi il Dolby avvolge il pubblico in una commistione di suoni provenienti da più parti della sala, da altoparlanti collocati in varie posizioni, si ha così l’impressione che un rumore prodotto da qualcuno o da qualcosa si sposti da una parte all’altra dello schermo.

Il colore si affermò gradualmente tra gli anni Trenta e Sessanta, sebbene la sperimentazione sia iniziata a fine Ottocento e sia stata sempre molto intensa. Si usava la luce in relazione al bianco e nero o alla scala dei grigi per creare contrasti, chiaroscuri e ombre, per creare atmosfere. Poi si ricorse alla colorazione dei fotogrammi a mano con un pennellino, al bagno della pellicola in una tinta o in una soluzione chimica, ma queste tecniche dagli effetti straordinari erano molto impegnative. Il sistema Technicolor fu brevettato nel 1916 per condurre le prime realizzazioni di film a colori a partire dalla pellicola in b/n, in seguito sviluppò diversi procedimenti che si consolidarono negli anni Trenta, si pensi a film famosi come Il mago di Oz (1938) e Via col vento (1939) di Victor Fleming. La ricerca proseguì puntando ad ottenere un cromatismo il più possibile realistico, che non fosse troppo acceso o troppo spento e che non imponesse costi elevati. Negli anni Cinquanta comparve l’Eastmancolor, che realizzava pellicole a colori in 35 millimetri, in Italia il primo film fu Totò a colori di Steno, basato sul sistema Ferraniacolor (1952).
Bianco e nero e colori condivisero la scena fino alla fine degli anni Sessanta, il bianco e nero era utilizzato soprattutto per rappresentare sogni, ricordi, passaggi tra presente e passato, ma fu scelto ancora a lungo da grandi registi. Il colore è stato usato per caratterizzare ambienti, personaggi e per amplificare i loro stati d’animo, negli anni si è affermato sempre più un uso espressivo che superava l’idea del colore naturale a tutti i costi, un uso espressivo che non descriveva, ma interpretava liberamente in base alla storia, agli eventi, ai personaggi, al genere di film.

Il passaggio più recente riguarda il digitale. Il cinema, fin dalla sua nascita, è stato legato alla pellicola con le sue perforazioni laterali, in un formato standardizzato di 35 millimetri. A partire dagli anni Ottanta è iniziata la rivoluzione digitale, che si è poi sviluppata negli anni Novanta, figlia della televisione prima e del computer in seguito. Essa ha abbandonato la pellicola e ha investito tutte le fasi di lavorazione di un film dalle riprese, alla colonna sonora, al montaggio, agli effetti speciali, alla proiezione e alla distribuzione, comportando anche una riorganizzazione delle sale e un sostanziale cambiamento delle tecnologie. In particolare, l’uso della videocamera digitale consente di aumentare la durata delle riprese, dei piani-sequenza, la libertà e la frequenza dei movimenti. Tra le ultime tecnologie di ripresa figurano la camera-car, la steadycam, montata su un corpetto indossato da un operatore, la minicamera gopro miniaturizzata, che si può fissare su un casco, la telecamera installata su un drone, che permette di effettuare riprese dall’alto con estrema velocità di spostamento.
L’applicazione al cinema dei processi di computer grafica 3D, attraverso l’uso di programmi CGI (immagini generate al computer in fase di montaggio), consente la realizzazione di intere sequenze senza la ripresa dal vero. Inoltre permette l’inserimento di numerosi effetti speciali, di creare scene di massa senza girarle, di realizzare scene in computer grafica, inserendo scenografie complete o singoli elementi disegnati al computer.
Nel film Il gladiatore di Ridley Scott, è stata costruita una prima parte del Colosseo dell’antica Roma, trattata poi in digitale per simulare il Colosseo al completo, e sono state moltiplicati gli spettatori per dare l’effetto di grandi folle, che altrimenti avrebbero richiesto una moltitudine di comparse e alti costi di produzione (2000). La saga di Jurassic Park di Steven Spielberg (dal 1993 in poi), Titanic di James Cameron (1997), Pearl Harbor di Michael Bay (2001), la saga di Avatar di James Cameron (dal 2009 in poi), sono solo alcuni dei film che hanno fatto largo uso delle tecnologie CGI.
Oggi, tuttavia, molti registi utilizzano tecniche miste alternando l’uso della macchina da presa con quello della videocamera, effetti speciali tradizionali con quelli digitali.
In circa quarant’anni, dunque, l’applicazione di procedimenti diversi è confluita in una multimedialità, in un’interazione tra linguaggi, molto più complesse di quelle precedenti.

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