Domenico Pontrandolfi

Storico

Storia e storie

a cura di Domenico Pontrandolfi

Domenico Pontrandolfi laureato in scienze storiche, innamorato della storia…

IL CORSO DELLA STORIA

Di

Domenico Pontrandolfi

Storia e storie

In questo breve scritto cercherò di individuare alcuni elementi che hanno contribuito alla costruzione della nostra civiltà quando, tra il III e il II secolo a.C., il sistema economico, politico e sociale del mondo antico, basato sulla schiavitù, si trovò di fronte alla necessità storica di raggiungere un ulteriore stadio della sua evoluzione attraverso l’unificazione sotto un’unica guida.
Per quanto riguarda la Storia dettagliata degli avvenimenti, sono innumerevoli i testi a disposizione per chi vuole approfondire; per questo mi limiterò a fotografare, tra Storia e Storia romanzata, quei momenti che portarono all’unificazione del sistema schiavistico del Mediterraneo, prospettiva che, in quel momento, solo Roma (e l’Italia) si trovava, per forza ed omogeneità, nella condizione di poter realizzare.
A lungo Cartagine ed Annibale tentarono di dare alla Storia un corso differente ma alla fine prevalse Roma.
Sconfitta Cartagine, Roma volse lo sguardo ad Oriente, verso i regni ellenistici.
L’Oriente ellenistico stava vivendo un momento di grande instabilità soprattutto a causa dei problemi interni all’Egitto dei Tolomei della cui debolezza cercarono di approfittare la Macedonia di Filippo V e la Siria di Antioco III per ingrandire i loro territori; ma Roma non desiderava avere concorrenti nel Mediterraneo.
Il Senato dapprima dichiara guerra alla Macedonia di Filippo V che viene sconfitta a Cinoscefale dal giovane console Tito Quinzio Flaminino; ne seguì un trattato di pace relativamente mite (Roma intendeva usare Filippo come alleato nella preventivata guerra contro la Siria) che nel primo articolo prevedeva “In generale, tutti gli Elleni, sia asiatici che europei, saranno liberi e sottoposti a proprie leggi” (Polibio, XVIII, 44).
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                                                                                                 LA “LIBERAZIONE” DELLA GRECIA (196 a.C.)
Era una bella giornata a Corinto ed io mi sentivo felice perché la guerra era finita e, soprattutto, perché avevo avuto il permesso di andare, per la prima volta, all’Arena per assistere ai Giochi Istmici; non vedevo l’ora di ammirare le gare di corsa, i lottatori e soprattutto il pugilato dove gareggiava un campione che apprezzavo molto.
In fila per entrare, sentivo il vociare degli altri spettatori; alcuni parlavano delle gare imminenti ma i più erano interessati alla fine della guerra e si chiedevano con preoccupazione cosa ne sarebbe stato delle città greche; qualcuno disse che il console Flaminino era a Corinto.
Ed eccoci nell’Arena ed ecco il trombettista e l’Araldo che, come di consueto, dovevano annunciare l’inizio dei giochi.
Uno squillo di tromba impose il silenzio mentre tutti erano in attesa della solenne formula che avrebbe dato il via ai giochi.
Invece, con grande stupore di tutti, l’Araldo inizia a leggere un proclama:” Il Senato romano e il generale Tito Quinzio, sconfitti il re Filippo e i Macedoni, ordinano che siano liberi, esenti da tributi autonomi, i Corinzi, i Focesi, i Locresi tutti, e l’isola di Eubea, i Magneti, i Tessali, i Perrebi, gli Achei della Flotide”.
Eravamo tutti ammutoliti, forse non avevamo sentito bene e ciascuno chiedeva al vicino delucidazioni ma nessuno aveva capito e da più parti si richiamava il banditore affinché ripetesse l’annuncio.
L’araldo legge di nuovo il proclama ed una gioia incontenibile, accompagnata da un fragoroso applauso, prorompe tra gli spettatori.
Per tutti, anche per me, i giochi persero di significato e si svolsero rapidamente.
Alla fine dei giochi tutti volevamo vedere il console Flaminino, ringraziarlo, toccargli la mano, mentre egli lanciava alla folla fiori e nastri.
Ero proprio felice.
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C’era dunque al mondo un popolo che a sue spese, a proprio rischio e sacrificio, combatteva per l’altrui libertà, e tale servigio non lo rendeva a popolazioni confinanti o vicine, o almeno dello stesso continente, ma passava il mare perché non vi fosse in alcuna parte del mondo alcun ingiusto dominio e dovunque onnipotente fosse il diritto, umano e divino, e la legge?
(Tito Livio, Storia di Roma, XXXIII, 32,4-33,8)
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                                                                                                LA SIRIA E LA FINE DELLA “LIBERTÀ” IN GRECIA
Le truppe romane lasciarono la Grecia (sia pure molto lentamente) e subito ripresero le tensioni fra le varie città e all’interno delle singole città.
Antioco III (presso il quale si era rifugiato Annibale) cercò di approfittarne sbarcando in Grecia ma i Romani intervennero prontamente e i Siriani vengono sconfitti a Magnesia (189 a.C.).
Con la pace di Apamea la Siria perde tutti i suoi possedimenti in Grecia ed in Asia Minore fino al Tauro; ormai Roma controlla tutto il Mediterraneo.
Intanto la “libertà” dei Greci si dimostra sempre più fittizia e il Senato interviene sempre più spesso nelle faccende delle varie città favorendo ovunque le oligarchie locali e provocando il malcontento dei ceti popolari.
E così, quando in Macedonia Perseo, figlio di Filippo, sale sul trono (179 a.C.) intorno a lui si aggrega tutta l’opposizione antiromana, soprattutto in Grecia, dove l’odio verso Roma era cresciuto estendendosi dai ceti popolari ai ceti possidenti.
Le ostilità iniziano nel 171 e si concludono con la battaglia di Pidna (168 a.C.) che rappresenta un autentico spartiacque nella politica romana; Perseo viene imprigionato e la Macedonia divisa in quattro piccole repubbliche e la Grecia conserva solo una parvenza di autonomia.
L’ epoca dei trattati di pace improntati alla mitezza sta declinando; Roma non ha bisogno più di alleati per governare.
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                                                                                                                            IL POTERE
Il re di Siria, Antioco IV, sincero amico di Roma, approfitta della situazione per muovere guerra all’Egitto spingendosi fino ad Alessandria; l’Egitto chiede aiuto a Roma che interviene prontamente.
Roma si limita ad inviare ad Antioco l’ambasciatore Popilio Lenate che gli trasmette l’ordine del Senato di evacuare l’Egitto; il re chiese tempo per riflettere ma l’ambasciatore traccia con una canna un cerchio intorno al re imponendogli di dare una risposta prima di uscirne.
Antioco IV obbedì immediatamente.
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                                                                            LA FINE DELL’INDIPENDENZA DELLA MACEDONIA E DELLA GRECIA
Nel 149 a.C, la Macedonia, sotto la guida di un certo Andrisco che si spacciava per figlio di Perseo, si ribella ma Roma reagisce immediatamente.
Sconfitto, Andrisco viene condotto per le vie di Roma al seguito del corteo trionfale del vincitore Quinto Cecilio Metello e poi giustiziato; la Macedonia viene ridotta a provincia romana.
Alcune città greche, approfittando della situazione, cercarono di liberarsi dalla tutela di Roma ma la rappresaglia fu feroce.
Le leghe vengono sciolte e molte città sottoposte all’amministrazione della nuova provincia di Macedonia, le mura di Tiro e di Calcide vengono smantellate e la popolazione disarmata.
Ma la sorte peggiore tocca a Corinto.
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                                                                                                                                CORINTO
Maledetta!
Corinto, la mia splendida città era stata maledetta e consacrata agli dei inferi.
Nascosto tra gli alberi guardavo la mia città ormai ridotta ad un cumulo di rovine ancora fumanti, le mura smantellate; dove un tempo regnava la bellezza ormai c’era solo desolazione.
Dove sono i magnifici templi e gli eleganti palazzi, le taverne e i negozi, dove sono le strade brulicanti di mercanti e di lavoro?
I soldati di Roma hanno distrutto tutto e tutto saccheggiato mentre le opere d’arte che rendevano meravigliosa la mia città, le ceramiche, le statue, i gioielli venivano caricati su enormi carri e trasportate a Roma.
Sento ancora il crepitare delle fiamme, le urla dei miei concittadini e la loro disperazione mentre cercavano scampo nella fuga.
Coloro che sfuggivano alla spada erano attesi da un destino terribile perché sarebbero stati venduti come schiavi.
Mentre fuggivo, lentamente e stancamente, attraverso i campi pensavo a quel giorno di cinquanta anni prima quando, ancora giovinetto, andai all’Arena ed ascoltai l’editto di Flaminino che proclamava la libertà per la Grecia.
E pensare che ci avevo creduto.
Dove sei adesso Flaminino?
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                                                                                         CETERUM CENSEO CARTHAGINEM ESSE DELENDAM (CATONE)
“D’altronde penso sia necessario distruggere Cartagine” (Catone).
Il 146 a.C. fu un anno terribile per il mondo antico; la stessa sorte di Corinto, toccò a Cartagine (e qualche anno dopo toccherà a Numanzia).
La città, vinta da Scipione Emiliano, viene distrutta e sulle sue rovine vengono pronunciate le formule di consacrazione agli dei inferi a significare che nessuno più avrebbe potuto abitarvi.
I 50.000 superstiti (in gran parte donne e bambini) vengono venduti come schiavi e il territorio di Cartagine diventa ager publicus e costituisce la nuova provincia romana d’Africa.
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Nell’arco di mezzo secolo si era passati da un atteggiamento relativamente moderato verso i popoli vinti ad una politica di brutale conquista.
Ma cosa era successo per determinare un così radicale cambiamento nella politica estera romana?
Le prime conquiste estesero a dismisura traffici e commerci e questo portò allo sviluppo di un nuovo ceto dirigente di origine mercantile molto più interessato ad una politica di espansione rispetto alla vecchia aristocrazia terriera.
La nuova realtà richiedeva una diversa forma di governo determinando l’epoca delle guerre civili che si conclusero con la fine della Repubblica e l’affermazione del Principato che sancisce così l’unificazione del sistema economico basato sulla schiavitù.
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“Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant” (dove fanno il deserto, lo chiamano pace)
Publio Cornelio Tacito

Un’eco dal passato: i nomi dimenticati

Di

Domenico Pontrandolfi

Storia e storie

“Meriteremmo i più giusti rimproveri da parte di quella quota dell’umanità cui più temiamo di dispiacere, se passassimo sotto silenzio il nome della celebre e troppo sventurata Ipazia”
(Diderot, Encyclopèdie)

Che si tratti di politica, guerra, arte o di qualsivoglia espressione della presenza degli esseri umani sulla Terra, questa ha sempre comportato una giustificazione culturale soprattutto in età storica.
Alle giustificazioni culturali, recentemente, si sono aggiunte le giornate dedicate; abbiamo giornate dedicate ad ogni problema: omofobia, immigrazione, inquinamento e tant’altro.
Ovviamente, una giornata dedicata alla donna non poteva mancare.
Però non desidero parlare della giornata dell’8 marzo ma cercare di capire le radici culturali della marginalità della donna nella nostra società.
Anche con queste limitazioni il discorso sarebbe troppo ampio e, per questo, desidero porre l’attenzione solo su ciò che la cultura ha cancellato in maniera più o meno consapevole.
La marginalità della donna è evidente in tutte le attività umane dove il mondo viene quasi sempre declinato al maschile salvo rare eccezioni.
In Italia, per esempio, dall’unità ad oggi, non abbiamo mai avuto un Capo dello Stato o un Presidente del Consiglio che sia donna.
Anche negli Stati Uniti mai una donna è riuscita a conquistare la Presidenza mentre in Europa abbiamo avuto qualche eccezione che restano comunque, appunto, eccezioni.
Leggiamo tutti i giorni di episodi di violenza sulle donne ma questi sono solo l’espressione più evidente di una violenza più diffusa e quotidiana fatta di sufficienza e sorrisini, negazione di diritti, pacche sulle spalle e marginali concessioni, tutte piccole sbarre che delimitano la gabbia della condizione delle donne.
Ed il primo passo è capire cosa è successo, domandarsi perché la differenza di genere si è trasformata in differenza di ruolo e perché questo ruolo è così periferico nella gestione della società dove la vita politica, economica ed anche culturale, è nella quasi totalità appannaggio degli uomini tranne rari casi che hanno, più che altro, un significato di testimonianza e non di vera inversione di rotta.
Il punto nodale non è quello di determinare il momento in cui la differenziazione dei ruoli ha avuto inizio ma quando questa differenza ha avuto la sua giustificazione teorica e culturale perché solo allora ha assunto i caratteri dell’ineluttabilità.
Limitiamoci ad uno di questi momenti ovvero all’avvento delle religioni monoteiste che per la civiltà occidentale significa il Cristianesimo.
I riferimenti biblici alla donna sono significativi e vale per tutti l’esempio di Eva che nasce dalla costola di Adamo (quindi la donna è solo una parte del tutto che è l’uomo) ed è causa della dannazione dell’uomo in quanto subisce il fascino della tentazione.
Nella scelta dei Vangeli canonici vengono selezionati dalla Chiesa solo quelli che vedono la donna ai margini della narrazione: emblematica la figura della Maddalena vista solo come donna traviata e poi redenta mentre tra i Vangeli scartati (gli Apocrifi) abbiamo addirittura un Vangelo della Maddalena in cui la donna è depositaria di un grande mistero (si arriva a Dio anche attraverso la ragione e non solo per fede e ciò rende inutile la presenza di intermediari tra Dio e gli uomini ovvero rende inutile la presenza del clero).
Da allora le persecuzioni della donna sono state costanti: come non ricordare Ipazia, la grande filosofa neoplatonica di Alessandria perseguitata dal vescovo Cirillo (poi divenuto Santo) e brutalmente assassinata.
Ed insieme ad Ipazia sono tante le donne filosofo dei primi secoli dell’era Cristiana che la Storia ha dimenticato e il cui pensiero è stato cancellato e che adesso vengono ricordate solo in qualche laconico trafiletto o nelle note a piè pagina di qualche libro di Storia.
Donne il cui nome deve essere sottratto all’oblio e pronunciato ad alta voce e ricordato insieme a quello di migliaia di altre donne che nei secoli successivi furono oggetto della cosiddetta caccia alle streghe e di tutte quelle che, negli ultimi secoli, hanno sacrificato la propria esistenza per un futuro migliore.
Nomi dimenticati, una storia dimenticata e dimenticata anche dalle donne, una storia che va recuperata altrimenti vivremo in un mondo sempre coniugato al maschile dove ci accontenteremo di poche, rare eccezioni dal valore puramente simbolico e … di un mazzo di mimose.
Quindi, anche se sembra un modo arido, voglio rendere omaggio ad alcune di queste donne di cui è stato cancellato financo il ricordo.
Il libro migliore che affronta l’argomento è stato scritto da Gilles Mènage nel Seicento ed ha per titolo “HISTORIA MULIERUM PHILOSOPHARUM ”
Ed allora pronunciamo alcuni di questi nomi, ascoltiamo questa eco che viene dal passato come un sussurro appena percettibile ed all’ indimenticabile Ipazia aggiungiamo alcuni dei nomi dimenticati di tutte quelle donne filosofo la cui memoria è stata cancellata insieme al loro pensiero deufradando non solo le donne ma tutta l’umanità.
Ricordiamo le neoplatoniche Arria e Gemina, la cinica Ipparchia e l’epicurea Teofila.
Pronunciamo il nome della stoica Porzia e delle pitagoriche Temistoclea, Teano, Mia, Arignote, Damo, Sara, Timica, Lastenia, Abrotelia ed Echecrazia.
E per finire rammentiamo le dialettiche ed aristoteliche Aconia Paolina, Giulia Domna, Cassia ed Anna Comnena, e tante altre che non cito per opportunità di testo, iniziando così a recuperare, attraverso questi nomi dimenticati, la Storia perduta ed omessa.
Mi sono limitato solo alla filosofia ma il numero di donne che hanno dato il loro contributo nella conoscenza è pari solo all’oblio in cui sono precipitate: vale per tutti Meret Ptah vissuta nel 2700 a.C. in Egitto, il primo medico che la Storia ricorda.
Recuperare la memoria, recuperare la storia dimenticata delle donne è uno dei passi necessari per guardare al futuro.
Solo recuperando questa parte della Storia, facendola emergere dalla ristretta cerchia degli studiosi, è possibile costruire le basi per superare le differenze in modo tale che la donna possa conquistare la sua giusta posizione dentro la società.

Il conflitto est-ovest nel mondo antico

Di

Domenico Pontrandolfi

Storia e storie

Quando parliamo di conflitto est-ovest pensiamo, generalmente, al periodo della Guerra Fredda che contrappose l’Occidente all’Unione Sovietica e al mondo comunista oppure, più recentemente, alle tensioni dell’Occidente con la Russia o la Cina.
In realtà, nella Storia, abbiamo avuto una contrapposizione tra Est ed Ovest fin dall’età del Bronzo; basti pensare alle guerre che videro protagonisti il mondo greco-miceneo (il mondo degli Achei) alla città di Troia, le cui vicende sono narrate nei poemi omerici che risalgono all’ VIII secolo a.C. ma che raccontano avvenimenti antecedenti di almeno quattro secoli.
L’ingombrante presenza dei poemi omerici ha reso difficile, per gli storici, distinguere la mitologia da ciò che è realmente accaduto anche perché la geografia omerica non coincideva con la geografia contemporanea.
Questo fino a quando l’archeologo Heinrich Schliemann, dopo sette campagne di scavi tra ii 1870 e il 1890, portò alla luce i resti della città di Troia in cui individuò nove stratificazioni e in una di queste erano evidenti i segni di un assedio e di un incendio dando una conferma storica a quello che la mitologia affermava da secoli.
Ovviamente la guerra tra Achei e Troiani non è dovuta alle grazie di Elena, moglie di Menelao, improvvidamente rapita da Paride, figlio del re di Troia Priamo ma, più prosaicamente, al controllo del commercio e dei traffici nell’Egeo.
Quindi, più o meno, le stesse motivazioni che determinano tutti i conflitti.
La prima tappa del conflitto tra est ed ovest sembra si sia, dunque, risolta a favore del mondo greco-miceneo e dell’Occidente ma un nuovo e più temibile avversario si profilava in Oriente: l’impero Persiano.
Già dal tempo, l’asse politico della Storia, si era spostato a nord della Mesopotamia, nella Media di cui faceva parte la satrapia della Persia.
Sotto la guida di Ciro il Grande (558-529 a.C.), il Gran Re, i Persiani si ribellano ai Medi, conquistandone la capitale, Ecbatana.
Ciro assume il titolo di Re dei Re dando inizio alla dinastia degli Achemenidi.
Di vittoria in vittoria, conquista Babilonia proclamandosi Re dell’universo con l’obiettivo di fondare una Monarchia Universale appoggiandosi alle élite locali per governare.
Già aveva conquistato la Lidia di re Creso e da qui occupa le città greche della Ionia.
Suo figlio Cambise (529-521 a.C.) conquista l’Egitto e volge la sua attenzione ad Occidente, verso Cartagine e la Grecia.
Una nuova tappa del conflitto est-ovest era alle porte ma tocca a Dario I affrontarla.
Le città greche della Ionia erano costantemente in rivolta contro i Persiani che qui non potevano contare sull’appoggio delle élite locali in quanto troppo profonde erano le differenze culturali e di mentalità e troppo diversi erano gli interessi economici.
Dario, dopo aver sottomesso le città della Ionia passa in Tracia e da qui invade la Grecia ma viene sconfitto a Maratona (490 a.C.).
La tradizione greca ci parla di un esercito persiano tra i 100.000 e i 500.000 uomini; in realtà i Persiani erano circa 30.000 contrapposti a 10.000 Greci, (soprattutto Ateniesi) guidati da Milziade.
Fallito questo tentativo, la guerra venne ripresa da Serse, figlio di Dario, che si preparò meglio.
Erodoto ci parla, esagerando, di un esercito persiano di 1.500.000 uomini; probabilmente si trattava di 200.000 uomini e 1000 navi; comunque una forza notevole per quei tempi.
La guerra assume, a tratti, toni epici; ricordiamo la difesa delle Termopili ad opera di Leonida, re di Sparta, che alla testa di 300 spartiati, ritardò l’invasione dell’Attica; Atene venne comunque occupata e l’Acropoli distrutta ma i Greci avevano avuto il tempo per organizzarsi.
La flotta persiana viene distrutta a Salamina dalla flotta ateniese guidata da Temistocle, mentre un esercito di Greci sconfigge l’esercito persiano a Platea.
L’invasione era scongiurata a dimostrazione, che in guerra, il numero dei combattenti è meno importante delle motivazioni; un esercito che difende la propria terra è molto più motivato di un esercito eterogeneo di popoli vinti e di mercenari.
La civiltà greca sembrava aver raggiunto il suo apogeo ma una serie di conflitti tra le città-stato, (in particolare Atene e Sparta) e soprattutto la devastante guerra del Peloponneso, ne determinarono la decadenza.
Una nuova potenza si era sviluppata a nord, il regno di Macedonia che, guidato da Filippo II, impose la propria egemonia sulla Grecia e a nulla valsero le famose quattro orazioni di Demostene, le Filippiche, per cercare di risvegliare l’orgoglio dei Greci.
Sottomessa la Grecia, Filippo volge la sua attenzione verso l’Impero Persiano ma viene assassinato in una congiura di corte che porta sul trono Alessandro (336 a.C.), figlio di Olimpiade (moglie ripudiata del Re), un giovane volitivo, allievo di Aristotele.
Alessandro, dopo aver puntellato il proprio potere in Grecia, giunge in Anatolia e dopo una serie impressionante di vittorie sui Persiani (Isso, Gaugamela) conquista Susa, la capitale dell’impero.
Nemmeno la morte di Dario III ferma Alessandro che prosegue la conquista delle province orientali, supera l’Indo fino alla regione tra questo fiume e il Gange.
Ma i suoi uomini sono ormai stremati e Alessandro inizia il ritiro (326 a. C.). Nel 324 a.C. raggiunge Susa e da qui si porta a Babilonia dove, giovanissimo, muore improvvisamente.
Con Alessandro si realizza un paradosso della Storia perché proprio lui, uomo dell’Occidente, costruisce quella Monarchia Universale che l’Occidente aveva osteggiato e in Oriente si era auspicata.
Con la sua morte, Alessandro Magno entra nella leggenda ma il suo vasto Impero non regge e viene diviso tra i suoi generali.
Ma nulla può essere come prima: nasce un mondo globalizzato, politicamente diviso ma culturalmente unitario
Nasce l’Ellenismo che chiude un millennio di tensioni e guerre tra Oriente ed Occidente diventando il ponte verso una fase nuova della Storia del mondo antico.
Infatti, mentre il mondo greco e l’Oriente sembrano aver trovato un loro equilibrio sincretico, ancora più ad ovest, si profila un nuovo Occidente, una nuova potenza che uscirà dalle guerre tra Roma e Cartagine.

Per le strade di Babilonia

Di

Domenico Pontrandolfi

Storia e storie

Un antico libro, il “De septem orbis miraculis”, traduzione dal greco di un’opera attribuita ad un certo Filone di Bisanzio (III secolo a.C.) oppure a Filone di Eraclea (IV secolo a. C.), ci parla di sette grandi opere dell’ingegno umano definite le sette meraviglie del mondo antico.
Tra questi capolavori, due si trovano nell’antica Babilonia, la città situata sulla riva dell’Eufrate e che la Bibbia, nella Genesi, chiama Babele.
La prima di queste opere sono le mura della città, che Erodoto, esagerando, afferma essere lunghe 86 chilometri, alte 100 metri e larghe 22 metri.
La seconda di queste meraviglie sono i giardini pensili del palazzo reale di Nabucodonosor II, figlio di Nabopalassar.
E allora abbandoniamoci alla nostra fantasia e seguiamo una guida immaginaria per le strade della splendida città di Babilonia al tempo di Nabucodonosor.
Immaginiamo che questa guida, grazie alla benevolenza del sovrano, mostri la magnificenza di questa città a
genti provenienti da ogni parte del mondo, dalle sponde del Nilo alle isole dell’Egeo, dall’Anatolia alla Persia. Prima di varcare le porte, diamo uno sguardo alle acque dell’Eufrate e da qui ammiriamo le mura della città che si estendono per 18 Km rendendola invincibile.
Otto sono le porte che ci permettono di entrare ma noi, grazie al nostro sovrano, che non finiremo mai di ringraziare, passeremo attraverso la piu favolosa tra queste che si erge proprio qui, davanti a noi.
Ammiriamo la grande porta di Isthar, dedicata alla dea dell’amore e della guerra; stupiamo dei suoi 15 metri di altezza e della sua bellezza, guardiamo lo splendore delle sue merlature e dei suoi mattoni rivestiti di smalto azzurro e sbalordiamo davanti ai suoi rilievi raffiguranti tori e draghi disposti in file alternate.
Dopo un ultimo sguardo alla porta, proseguiamo lungo la Via della Processione; ammiriamo la sua larghezza di 22 metri e avviciniamoci alle mura che la delimitano per osservare i mattoni e le ceramiche decorate da rilievi a forma di leone e da numerosi motivi animali e floreali che la abbelliscono per tutta la sua lunghezza.
Affrettiamoci perché tra poco si arriva al recinto sacro ed al palazzo reale dove altre bellezze ci attendono.
Nel recinto sacro troviamo numerosi templi e non abbiamo certo il tempo per visitarli tutti però non possiamo evitare la Torre Etemnanki la cui triplice gradinata ci permette di accedere alla torre quadrangolare; un camminamento a spirale ci porta alla sommità della Torre dove è situata una cappella.
Scendiamo e usciamo dal recinto sacro e proseguiamo lungo la Via della Processione fino a raggiungere il Tempio Esagila di Marduk, tipico tempio della Mesopotamia, con la sua anticella, la cella e la meravigliosa corte centrale.
Torniamo un poco indietro e finalmente eccolo qui, lo splendido palazzo reale del sovrano, con la sua porta monumentale che si apre direttamente sulla Via della Processione e con le sue doppie mura e le formidabili fortificazioni.
Entriamo nel palazzo, sempre che ce lo permettano, e ammiriamo i suoi sei cortili intorno ai quali si aprono numerosi vani utilizzati per la cancelleria, per l’harem e per gli appartamenti reali, la cui visita ci è, ovviamente, preclusa.
Diamo uno sguardo alla Sala del Trono la cui peculiarità era quella di essere estesa più in larghezza che in lunghezza, e poi portiamoci verso l’angolo nordest del palazzo.
Qui, sopra una struttura a volte, sono situati i famosi Giardini Pensili dove possiamo godere della presenza di alberi da frutto, fiori e piante di ogni genere.
Ma il tempo per la nostra visita è finito come stava volgendo al termine il tempo dell’impero neobabilonese di Nabucodonosor e Nabopalassar.
Una crisi dinastica e la successiva invasione persiana posero fine alla potenza babilonese e l’asse della Storia esce dalla Mesopotamia per spostarsi definitivamente altrove.

Doni dall’antico Egitto

Di

Domenico Pontrandolfi

Storia e storie

Ciò che stupisce dell’antico Egitto è la sua grandiosità; tutto è gigantesco, dai templi alle statue fino ai circa 4000 anni in cui si è sviluppata questa splendida civiltà.
Tutto sembra sfidare il Tempo.
L’antico Egitto, tra steli e papiri, ci ha lasciato una mole enorme di scritti che ci hanno permesso di ricostruire le vicende politiche e militari, nomi di Re e dinastie, cultura e momenti di quotidianità.
E tra I vari doni che questa civiltà ci ha lasciato voglio ricordare il Romanzo, qualcosa di talmente ovvio per noi da farci dimenticare che, probabilmente, il primo romanzo di cui abbiamo notizia proviene dall’antico Egitto.
Si tratta de’ “Le avventure di Sinuhe” scritto intorno al 1900 a. C. nel periodo della XII dinastia, durante il regno di Sesostri I.
Il romanzo ci è noto integralmente; scritto in 6 papiri, viene tradotto e pubblicato nell’Ottocento.
Narra le vicende di Sinuhe, un funzionario dell’harem del principe Sesostri che, per caso, durante il ritorno dalla campagna di Libia, viene a conoscenza di alcuni particolari sull’assassinio del vecchio faraone Amenmhet I.
Preso da timore fugge verso il Delta, attraversa l’Istmo di Suez e raggiunge la Siria dove viene accolto da una tribù beduina e adottato dal suo capo.
Tenuto in grande considerazione diventa a sua volta capo-tribù ma, giunto in età avanzata, viene preso da nostalgia per il suo paese e scrive a Sesostri I per poter rientrare in patria ed il faraone acconsente.
Al di là delle avventure e dei viaggi di Sinuhe, l’opera è volta ad esaltare la magnanimità e la benevolenza del sovrano.
Alla sua pubblicazione nell’Ottocento, il romanzo ebbe un grande successo tanto da meritarsi numerose riedizioni e rivisitazioni tra cui il recente “Sinuhe l’egiziano” di Mika Waltari da cui venne tratto l’omonimo film di Michael Curtiz (1954).
Sia il romanzo di Waltari che il film di Curtiz sono ben fatti e sono un ottimo viatico per chi vuole avvicinarsi alla civiltà egizia senza impegnarsi in complicate letture di testi e papiri anche se, entrambi, pur mantenendo l’impostazione del viaggio e dell’esilio, spostano gli avvenimenti di circa mezzo millennio portandoci verso la fine della XVI dinastia, durante il regno di Akhenaton, nel turbolento periodo della riforma religiosa voluta dal sovrano in lotta contro i sacerdoti di Tebe.
Inoltre, in questi lavori recenti, Sinuhe non è un funzionario di corte ma un medico e qui introduciamo un altro dono che proviene dall’antico Egitto: la medicina.
Certo non è la medicina come la intendiamo oggi ma un misto di religione, magia e rimedi naturali.
Numerosi sono i personaggi di rilievo che hanno il ruolo taumaturgico di guaritore; oltre ai sovrani ricordiamo importanti architetti,come il grande Imothep, che vengono addirittura divinizzati.
I medici sono sotto la protezione della dea scorpione Serquet e della dea Neit di Sais e proprio a Sais, accanto al tempio della dea, sorgeva una scuola di medicina.
Numerosi papiri attestano l’importanza della medicina nell’antico Egitto è tra questi il “Papiro Edwin Smith ” un vero e proprio testo chirurgico con la descrizione dei sintomi e la diagnosi.
Ricordiamo il “Papiro Ebers” con diagnosi e ricette per un gran numero di malattie, ricette di bellezza e di igiene e formule per la produzione di queste ricette.
Altri numerosi papiri affrontano argomenti particolarmente interessanti: abbiamo un trattato di veterinaria ed anche un trattato per le malattie femminili e le pratiche anticoncezionali.
Ovviamente la pratica medica è molto rudimentale considerando anche le scarse conoscenze anatomiche dell’epoca.
Nonostante ciò la medicina era molto diffusa e, come dice Erodoto nelle sue “Storie” in Egitto c’era un medico per ogni malattia.
Scuole, trattati, specializzazione, sono il lascito della cultura egizia per la modernità, in medicina come in architettura, in matematica e in tanti altri settori.
E lo stesso vale per la quotidianità.
Guardiamo la dieta degli egiziani che era basata sul pane: il grano veniva macinato più volte con una pietra su di un grande mortaio, anch’esso di pietra, e trasformato in farina; la farina veniva impastata con l’acqua e forse si aggiungeva anche del lievito.
Si ottenevano delle pagnotte che venivano cotte sulla brace o in qualche forno rudimentale.
Per quanto riguarda il vino, i grappoli d’uva venivano posti in grandi recipienti e pigiati con i piedi e, dopo la torchiatura, il prodotto ottenuto veniva posto in giare sigillate ed etichettate.
Tecniche praticate fino a non molto tempo fa (e che in alcune parti del mondo sono tuttora praticate) e soppiantate solo dalla produzione industriale.
Tutti doni che vengono da lontano, da una Storia millenaria che vale la pena conoscere per poter meglio comprendere ed apprezzare il mondo attuale.

La Storia dimenticata

Di

Domenico Pontrandolfi

Storia e storie

Qualcuno ha detto che la Storia la scrivono i vincitori e questo in parte è vero, soprattutto se guardiamo alla Storia che si insegna nelle scuole o a quella destinata alla grande divulgazione dove tutto sembra confluire nel grande oceano della cultura occidentale vista come il terminale di ogni civiltà.
In realtà, il processo storico è un insieme di diverse culture che hanno attraversato il tempo e lo spazio e dove ognuna ha dato il suo contributo nella costruzione del mondo attuale.
Ma come è nata la Storia.
Prendiamo un elemento così comune come l’acqua che noi, soprattutto in Occidente, diamo facilmente per scontato.
Ebbene, l’acqua è il primo passo che ha permesso all’umanità di entrare nella Storia con il suo importante contributo dato allo sviluppo dell’agricoltura e quindi alla fine del nomadismo e alla nascita delle prime comunità stanziali, i primi villaggi, le prime città.
Non a caso, le prime civiltà, le cosiddette civiltà potamiche, si sono sviluppate lungo il corso dei grandi fiumi: il Nilo, il Tigri, l’Eufrate, l’Indo, il Gange, il Fiume Giallo, il Fiume Azzurro.
Il primo passo per entrare nella Storia l’umanità l’aveva compiuto ma ne rimaneva ancora un altro, decisivo.
E allora, con un magico viaggio nel Tempo, planiamo verso la Mesopotamia, la terra tra il Tigri e l’Eufrate, quella vasta e fertile pianura alluvionale dove si sviluppò la civiltà dei Sumeri (IV-II millennio a.C.).
Entriamo nelle loro città, attraversiamo Uruk, Ur, Lagesh, Kish, Akkad, tutte città-stato governate da monarchie di tipo teocratico.
Passiamo per le vie di Uruk e andiamo a visitare il complesso religioso di Kullaba dedicato al dio AN, padre di tutti gli dei, e poi verso il complesso di Eanna dedicato alla dea INANNA (ISTHAR), la dea della maternità, della fecondità e dell’amore.
Tutto indica la ricchezza del Pantheon sumerico dove troviamo ancora ENLIL, dio del vento e del destino che regola, con la sua saggezza, le sorti del mondo, ENKI, che controlla le istituzioni umane, DUMUZI, protettore delle mandrie.
Ma torniamo al nostro viaggio e, dopo una breve sosta alle pendici di un Tell, lasciamo Uruk e raggiungiamo Ur, dove percorriamo la lunga gradinata che ci porta alla sommità dello Ziqqurat dedicato a NANNA, il dio lunare che protegge la città.
Una breve visita alla città-santuario di Nippur per poi approdare a Mari situata sul medio corso dell’Eufrate per ammirare lo splendido palazzo di Zimrilim, il grande complesso amministrativo, economico, religioso e politico considerato una delle meraviglie del suo tempo.
Entriamo nei palazzi e nelle case e, per un attimo, immaginiamo di ascoltare, ammirati, saghe e racconti che ci parlano di antichi miti come “Il poema di Emmarker e il signore di Aratta” e soprattutto “Il poema di Gilgamesh” in cui il nostro eroe narra degli ostacoli che incontra sul cammino verso l’immortalità e della sua discesa agli inferi per salvare un suo servitore.
Ma accanto a miti ed eroi troviamo veri propri personaggi storici tra i quali giganteggia SARGON (2370 a.C.), un alto funzionario di Kish che fondò una nuova dinastia nella città di Akkad, dove regnò per 56 anni, famoso per le sue imprese militari che lo portarono a conquistare quasi tutta la Mesopotamia spingendosi fino in Siria.
Nomi di divinità, poemi, monarchi e costumi che sono arrivati fino a noi perché nel frattempo era nata la SCRITTURA.
I Sumeri utilizzavano dapprima un sistema parzialmente pittografico che poi si evolse in un complesso sillabario ottenuto dalla combinazione di segni incisi su tavolette d’argilla con uno stilo a sezione triangolare.
Era la scrittura cuneiforme e con la scrittura l’umanità compie un passo decisivo, con la scrittura l’umanità esce dalla preistoria ed entra nella STORIA.
E dalle prime fonti scritte sappiamo che i Sumeri conoscevano anche la birra la cui produzione era sotto stretto controllo statale e a cui venivano destinate solo le eccedenze del raccolto di cereali.
Insomma la birra c’è, la scrittura pure e la STORIA PUÒ INIZIARE…

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